di Rosella Castelnuovo
Non cambia espressione né tono di voce Pippo Baudo quando parla della sua malattia. Uguale a come lo vediamo da tanti anni affacciarsi dal teleschermo nelle nostre case. Che presenti festival canori o programmi di storia recente, come l’ultimo “Novecento” di Rai 3. E’ ancora più deciso, semmai, in veste di testimonial nella raccolta dei fondi per la ricerca contro il cancro perché lui il tumore lo ha vinto. O, comunque, ci convive da quasi trent’anni.
“Un nodulo sul collo, a sinistra – racconta – fu il primo allarme. Mi sottoposero a una biopsia in anestesia locale: due ore di sofferenza perché era ramificato, profondo e non facile da raggiungere. Poi passarono alcuni giorni senza che mi facessero sapere nulla. Eppure (era il ’72) ero nelle mani del grande chirurgo romano Paride Stefanini. Forse volevano essere sicuri prima di comunicarmi la diagnosi: un carcinoma papillifero della tiroide”.
Che effetto le fece sentire la più temuta delle diagnosi? Sentì che cambiava più il suo corpo o la sua mente?
La testa non è cambiata mai. Quando mi chiesero quali impegni avevo, per decidere quando operarmi, risposi che mi servivano tre mesi per preparare Canzonissima. Cominciai a curami con farmaci a base di ormoni tiroidei estratti da ipofisi di maiale. Ma il dosaggio, a causa di questo metodo di preparazione, non era mai stabile e ogni tanto avevo fortissimi malesseri. Durante quei tre mesi, comunque, non pensavo mai alla malattia, ma solo al lavoro. Anche perché mi avevano parlato di “noduli tiroidei aberranti” e io ritenevo che si trattasse di qualcosa di passeggero. Mi avevano detto anche che senza la tiroide si poteva vivere normalmente, con terapie ormonali sostitutive, e questo mi permetteva di non preoccuparmi. Di non avere mai paura.
Si sottopose quindi al primo intervento chirurgico che fu decisivo nel bloccare la malattia, anche se non definitivo…
Mi curò l’endocrinologo Ivo Banchieri che lavorava al Policlinico di Roma, in uno scantinato puzzolente. La ricerca però stava portando risultati proprio in questo campo specifico e, per la prima volta, una malattia come la mia poteva essere aggredita in modo efficace. I medici erano bravissimi e mi aiutarono ad affrontare tutte le cure senza problemi, anche se poi sono stato operato cinque volte. L’ultima un anno e mezzo fa.
Pensa di essere stato più bravo o più fortunato nell’aver fermato il suo cancro?
Certamente più fortunato. Quasi contemporaneamente a me si era ammalato dello stesso tipo di tumore anche mio padre, l’uomo più importante della mia vita, con cui avevo un rapporto straordinario… Ma lui non ce l’ha fatta ed è morto soffrendo molto. Nel mio caso, invece, quel nodulo, quell’”esplosione” esterna della malattia mi ha salvato perché mi ha permesso di intervenire subito. E, come si sa, prevenzione e diagnosi precoce sono le migliori armi contro tutti i tipi di cancro.
Amici, medici, familiari, colleghi, ammiratori… Chi l’ha aiutata di più?
Certamente i medici. Ho una grande ammirazione per loro. Il fatto stesso che si preoccupino per la salute degli altri me li fa apparire come missionari, ricchi di valori umani. Molti dei miei amici sono medici e questa piena fiducia in loro, unita al mio carattere, è stata determinante. Sono uno che non si arrende. Che va avanti a ogni costo. Con ostinazione, direi.
E i suoi familiari?
Mia moglie e mia figlia mi sono sempre venute a trovare dopo gli interventi. Ma sono stato io tenerle lontane. Quando sto male voglio stare solo e non voglio che anche gli altri soffrano.
Ha preferito “fare squadra” con i medici, quindi, anche se recentemente questi – e gli oncologi, in particolare – sono stati messi sotto accusa, perché attenti più alle malattie che ai malati, come è stato detto, o perché applicano tecniche troppo invasive e impersonali. Si pensi al caso Di Bella e alla contestazione alla chemioterapia… Lei cosa ne pensa?
Purtroppo è vero che alcuni medici esagerano e che esistono chirurghi che operano malati di cancro anche quando ormai è tardi e l’intervento è inutile. E’ il loro mestiere, d’altra parte, e dobbiamo capire, cinicamente, che se non lo fanno neanche guadagnano.
Questo per fortuna non ha riguardato la sua storia che, piuttosto, sembra essersi svolta senza ombre. Non ha veramente mai avuto paura?
Un periodo brutto c’è stato. Fu nel ’94, quando dovevo presentare il Festival di San Remo e avevo perso la voce. Per modulare bene le parole dovevo gridare. Sudavo, faticavo e questo mi rendeva sempre più nervoso, più ansioso di non farcela, peggiorando la situazione. Arrivai a pensare di smettere di lavorare. Di lasciare tutto… che ormai era finita.
Viene da pensare che, anche senza voce, avrebbe potuto continuare a fare tante cose: creare programmi, dirigere, sviluppare tante attività nel mondo dello spettacolo…
Sono conosciuto per la mia faccia e per la mia voce. Senza queste due cose non potrei fare il mio lavoro.
Come uscì da questa crisi?
Andando da un medico francese, Jean Abitibol, un endocrinologo del “Centro di salute della voce” di Parigi dove si erano curati anche Maria Callas e Frank Sinatra. Mi disse che non ero gravissimo, che ero curabile e mi rimandò a casa con una montagna di medicine. Dopo otto mesi tornai a Parigi per operarmi alle corde vocali: venti minuti di intervento registrati su una videocassetta e che ogni tanto rivedo.
Il “video” più particolare, probabilmente, tra i tanti registrati in più di cinquant’anni di vita nel mondo dello spettacolo, dato che lei cominciò a calcare le scene all’età di 6 anni. Quanto ha contato il fatto di essere un personaggio conosciuto e di successo nell’aver vinto il tumore?
Non poco, credo. Guarire Baudo corrispondeva a lanciare un messaggio positivo per tutti e a dare coraggio agli ammalati. Insieme ai medici, come Banchieri e Aldo Pinchera di Pisa, sono spesso andato in giro per le corsie e i congressi per testimoniare direttamente che il cancro si può combattere. Cerco di trasmettere la mia capacità di superare le difficoltà parlando con tutti, aiutandoli a non pensare troppo a quello che non funziona e a reagire senza dare troppa colpa alla malattia.
Ma il cancro, nonostante i molti progressi fatti nella prevenzione e nelle cure, resta pur sempre una fonte di grandi sofferenze sia fisiche che psicologiche. Non le sembra che parlarne solo in modo positivo o addirittura trionfalistico, come se tutto fosse risolto o quasi, rischi di tramutarsi in una delusione o in una forma di incomprensione per chi non ce la fa?
Al contrario. Penso che, proprio perché viviamo in un’epoca piena di problemi, di incertezze e di sfiducia ci sia bisogno di messaggi forti e positivi. Di ricordare che per superare le difficoltà ci vogliono volontà, coraggio, serenità e fortuna. Questo è quanto io stesso ho imparato dalla mia malattia: mi ha rafforzato. Ho più coraggio, ora. Più spregiudicatezza e consistenza psicologica.

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