L'allarme del professor Patrizio Rigatti, del San Raffaele di Milano: è il secondo tumore killer dopo quello al polmone.

ROMA - E' il cancro alla prostata il killer "numero due" per l'uomo. Colpisce soprattutto gli uomini dopo i 50 anni. Davanti a questo tumore, nella poco allegra casistica della neoplasie maschili, per ora c'è ancora quello polmonare, ma le due curve dell'incidenza vanno sovrapponendosi e dopo i 70 anni già oggi il nemico numero uno è il carcinoma prostatico. Questione di geni, per quanto riguarda le cause, ma qualcosa per evitarlo si può fare: sott'accusa sono l'alimentazione scorretta, la vita sedentaria e lo stress.
L'appello verso una maggiore attenzione per quello che, da tempo, è uno dei due organi bersaglio principali del sesso forte è lanciato dal professor Patrizio Rigatti, direttore della Clinica Urologica dell'Università "Vita-Salute" San Raffaele di Milano: "Il cancro della prostata è una malattia estremamente diffusa - dice Rigatti - in Italia come in tutto il mondo". All'origine del boom di casi registrati ci sono sicuramente i progressi delle tecniche diagnostiche. Oggi infatti, la diffusione del test Psa (la ricerca dell'antigene prostatico specifico) permette di individuare le persone a rischio. Ma è proprio qui che inizia la confusione e parte il dibattito scientifico: "Bisogna capire molto bene che cosa significa dire "persone a rischio" - avverte l'urologo - perché in realtà non esistono valori di Psa da considerare "normali"". In altre parole il Psa non basta per escludere la neoplasia. E non basta neppure una biopsia. "Per una mappizzazione completa, a prova di "falsi negativi", servono almeno 3-4 serie di biopsie - dice Rigatti - il che significa da un minimo di 6 ad un massimo di 18 prelievi a serie". Vale a dire, "molti mesi di indagini".
Sullo screening la diatriba è aperta. "Da un lato - dice Rigatti - c'è chi ricorda che esiste un 80% di persone "sovratrattate", e che molti dei tumori individuati facendo analisi a tappeto potrebbero anche non manifestarsi mai sul piano clinico, restando silenti per sempre"; dall'altro, invece, "c'è chi ribatte che senza indagini di massa si rischia di ignorare neoplasie che prima o poi potrebbero degenerare, "uccidendo il malato in 6 mesi". In attesa di arrivare ad un accordo, l'atteggiamento individuale più consigliabile è quello di "iniziare i controlli dopo i 50 anni, ripetendoli una volta all'anno", suggerisce lo specialista. Se però esiste un rischio genetico "i test dovrebbero cominciare prima, verso i 40-45, sempre con controlli annuali. Se la familiarità si accompagna ad uno stile di vita a rischio (dieta scorretta e sedentarietà), "i controlli successivi alle prime analisi dovrebbero avvenire con maggiore frequenza".
E veniamo ai trattamenti. "Spesso si sente dire che gli interventi contro il cancro alla prostata compromettono per sempre l'attività sessuale - afferma Rigatti - ma questo non è vero". Anche perché, precisa l'urologo, "non esiste un unico trattamento, ma quattro tecniche differenti". La prima è la chirurgia, oggi il "gold standard", cioè la via più accreditata. Infatti, oltre ad asportare il tumore, permette di caratterizzarle, in caso di ricadute, di intervenire con metodiche meno invasive. Le percentuali di conservazione dell'attività sessuale, in mani esperte, arrivano al 90-95%". Poi c'è la radioterapia esterna, "che però - puntualizza l'esperto - ha percentuali di ricaduta molto elevate. Per questo si fa solo a chi non può subire l'intervento chirurgico". La terza strada è costituita dagli aghi radioattivi, ma non sono ancora noti i risultati a lungo termine. Infine, "pochissimo usata", spiega lo specialista, c'è la terapia del freddo o crioablazione, più applicata in altri campi.
Per la prevenzione: meno stress, in quanto abbassa le difese immunitarie, più frutta e verdura e tanto esercizio fisico. 

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